La vendita e il rischio come cura

 

Enrico Brunetti

amministratore delegato di Brunetti Utensileria, Argelato (BO)

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Con quasi novant’anni di storia, la vostra azienda, la Brunetti Utensileria, ha contribuito alla riuscita del tessuto industriale dell’Emilia Romagna, diventando partner di riferimento per il proseguimento di tante imprese del settore meccanico. Quanta cura è stata necessaria per costruire un’azienda che ha attraversato quasi un secolo di storia?

Ho quarantaquattro anni e tutte le mattine, quando mi sveglio, penso che continuo l’opera di mio nonno e di mio padre, lavorando nell’azienda di famiglia. Proseguire per quasi un secolo l’attività imprenditoriale è un aspetto che oggi per molti è riconosciuto come un valore, ma talvolta accade anche che sia snobbato. Ricordo molto bene quando, appena ho conseguito il diploma in ragioneria, gli amici mi dicevano che avevo l’opportunità di lavorare in banca. All’epoca, infatti, l’impiego in un istituto bancario era molto ambito ed era quasi assicurato a coloro che avevano conseguito gli studi tecnici. Pertanto, gli amici mi chiedevano come fosse possibile per me riuscire a vendere placchette o inserti di metallo, senza sapere niente di meccanica. Io rispondevo semplicemente che mio padre aveva bisogno di qualcuno che gli desse una mano. Ho incominciato, quindi, a vendere i nostri utensili durante il periodo estivo, andando agli appuntamenti insieme ai venditori. Ma sempre mi accompagnava il pensiero di quale potesse essere il futuro dell’azienda, perché non era scontato che riuscissi nell’attività. Pensavo: “Vado fuori dall’azienda e parlo con persone che lavorano per ore ai torni e alle frese” e dicevo “Mah!?”.

Che età aveva all’epoca?

Avevo appena vent’anni e mi spaventava l’idea di operare nel mercato senza alcuna esperienza meccanica, ma con una formazione scolastica in ragioneria, in cui erano contemplati i bilanci, i costi e i ricavi, il conto economico e lo stato patrimoniale, anziché gli specifici pezzi di taglio o il modo per ottenere una rugosità. Mi chiedevo cosa fosse la rugosità. Tuttavia, quando andavo a trovare i clienti, sentivo la responsabilità di promuovere la qualità dei nostri prodotti.

Qual era il dispositivo di parola che aveva con suo padre?

Durante il giorno mi recavo dai clienti, da solo o affiancato da tecnici delle case produttrici che l’azienda rappresentava, e, quando tornavo a casa, mi consultavo con papà perché non accettavo l’idea di non saper rispondere alle domande che mi ponevano. Ogni sera ci incontravamo alle 18.00 e lui mi dedicava mezz’ora o tre quarti d’ora per chiarire le mie incertezze oppure m’indicava chi altri poteva aiutarmi. 

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Calendario 1936
Collezione calendari storici “Brunetti Enrico”
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Luca Guenzi, trompe l’oeil Brunetti Utensileria dal 1929, 2007

Si è chiesto se la strada che stava percorrendo sarebbe stata quella giusta?

Il dubbio era continuo, soprattutto nei momenti difficili, però mio papà, i clienti e gli amici mi hanno sempre sostenuto. Avevo un amico con cui condividevo la passione per il basket che era titolare di un’officina meccanica. Ci incontravamo la sera e gli chiedevo di spiegarmi i termini tecnici e le lavorazioni meccaniche che non conoscevo. Mi avvalevo anche di un ingegnere eccezionale, Flavio Bianco, che purtroppo è mancato presto ma che mi ha insegnato tanto. Di lui ricordo che aveva gli occhi lucidi quando mi parlava, perché amava il suo lavoro e voleva che capissi bene. Sarò sempre in debito con chi ha sostenuto la mia curiosità e la mia esperienza.

Il suo itinerario si è snodato attraverso gli interlocutori che ha incontrato strada facendo…

Sì, sono anche stato fortunato ad avere un padre che non mi ha mai consentito di trovare la cosiddetta pappa pronta. Poteva suggerirmi di lavorare in azienda per occuparmi degli aspetti amministrativi, che peraltro sarebbero stati coerenti con il mio percorso di studi. Ma il nostro core business è sempre stato quello di vendere utensili tecnologici. E di utensili s’impara soltanto parlandone, andando nei luoghi in cui sono prodotti e utilizzati. Mi sono laureato nel giugno del 1997 e il 1° luglio sono andato a vendere con la mia valigetta, perché mio papà diceva che non c’era altro modo per imparare questo mestiere. E io andavo, e non sapevo nulla. Tornavo in azienda e chiedevo: “Ma come faccio? Vado dai clienti e mi chiedono cose a cui non so rispondere”. E lui mi diceva: “Fidati di me, fai le tue belle figure, ma vedrai che impari”. E in effetti, dopo i primi mesi, che hanno costituito una prova ardua, ho incominciato a capire qualcosa e a intendere quella lingua. Questa è la vera formazione.

Nell’impresa, come nella bottega, le cose si fanno secondo l’occorrenza. L’impresa non è purista perché esige una pratica che va oltre l’idea di bene e di male, ma secondo ciò che occorre fare. Quanto ha inciso in questa formazione ascoltare il papà che parlava delle questioni che incontrava nell’azienda anche quando era in casa?

Ha inciso e incide ancora tantissimo, perché noi siamo rispettivamente rimproverati, mio papà da mia mamma e io da mia moglie, perché continuiamo a parlare di lavoro anche quando siamo con la famiglia. Noi parliamo sempre di lavoro, anche quando ci incontriamo al di fuori dell’azienda, perché le problematiche sono talmente tante e complesse, come lo sono i rapporti con i collaboratori, con i dipendenti e con i fornitori.
Ciascuna volta parliamo di vita. La cosa più difficile per un’azienda di piccole, medie o grandi dimensioni è ascoltare i propri collaboratori e farli crescere. Fino a dieci anni fa, avendo acquisito una quantità notevole di clienti, ero giunto a credere che non avessimo bisogno di collaboratori esterni, dal momento che soltanto io procuravo il 70 per cento del fatturato. Ma poi ho messo in questione questa convinzione. Eccetto una quindicina di aziende, che chiamiamo direzionali e che seguo io, oggi cerco di affidare i clienti alle cure dei miei collaboratori. È essenziale che il collaboratore, cui abbiamo delegato specifici compiti, sia in condizioni di risolvere i problemi. Così è più contento, perché si qualifica e assume i valori dell’azienda, si va “brunettizzando”, mi piace dire. L’azienda cresce se ha nuovi collaboratori, se lavorano con soddisfazione perché crescono nell’azienda, e intendono l’affidamento di nuovi clienti da parte nostra come riconoscimento di fiducia. I risultati di questa politica sono stati più che premianti.

Quanto conta la cura nel suo lavoro?

È fondamentale, nel senso che per me la cura è l’assistenza quotidiana del cliente che si traduce nel fatto di essere sempre a sua disposizione. Le tecnologie attuali, per esempio, inducono a diventare schiavo del telefono cellulare: ciascun istante ricevo messaggi tramite Whatsapp, telefonate e mail a cui sono obbligato a rispondere subito. È meglio evitare di dipendere dalla tecnologia, però non è possibile privarsene. Negli ultimi due anni e sempre più spesso, noi riceviamo ordini alle ore 17.30 e dobbiamo garantire la consegna al cliente il giorno seguente, in tutta Italia. Questo è veramente impegnativo, perché bisogna che i fornitori consegnino tutto entro le 13.00, in modo che il magazziniere possa preparare la merce per la spedizione al cliente.

Quali sono le prospettive nel settore per i prossimi mesi?

Sono molto ottimista e sono convinto che questo e i prossimi due anni saranno positivi per le imprese italiane. Negli ultimi dieci anni, infatti, la crisi, più incisiva di quella del 1929, ha spazzato via dal mercato un numero elevato di aziende. Ma, intanto, tra le aziende che hanno proseguito, moltissime hanno avuto il problema del cosiddetto passaggio generazionale al loro interno, soprattutto nell’ambito della meccanica. Le multinazionali, che affidavano il lavoro alle piccole e medie aziende che in seguito alla crisi hanno chiuso, si sono trovate in difficoltà con i fornitori. Di conseguenza, si sono rivolte alle imprese rimaste attive nel mercato, le quali hanno colto la crisi come l’occasione per predisporre al loro interno una nuova struttura organizzativa. Il risultato è che attualmente nel mercato della meccanica opera un numero ridotto di aziende qualificate, che devono evadere invece una quantità notevole di ordini. È la situazione più diffusa nelle zone di Reggio Emilia, Modena, Parma, Bologna, Imola e Forlì.

In questo contesto, cosa sarebbe bello ipotizzare?

Che i giovani avessero la possibilità di aprire nuove aziende meccaniche, per acquisire questa grande richiesta di ordini. Rilanciare e rischiare di riuscire ciascun giorno è ancora il modo migliore per giungere al traguardo dei novant’anni d’impresa.

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