Cinquant’anni di esperienza di parola per utensili di qualità
Enrico Brunetti
amministratore delegato di Brunetti Utensileria, Argelato (BO)
Era il 1929 quando l’esploratore statunitense Richard Evelyn Byrd – fra i primi a planare nei cieli del Polo Nord – si lanciava in un’impresa mai riuscita fino ad allora: sorvolare il Polo Sud. In quell’anno, passato alla storia anche come quello della grande crisi, il giovane Enrico Brunetti apriva a Bologna l’Utensileria Brunetti, oggi prossima a tagliare il traguardo dei novant’anni.
Lungo i trenta metri della parete d’ingresso della sede attuale si snoda quasi un secolo della vostra storia. Un affresco inscena la Bologna del 1929, sorvolata dalla ricca mongolfiera targata Utensileria Brunetti, trasposta poi nell’aereo che volteggia fra le torri del distretto fieristico della città negli anni ottanta, fino alle avveniristiche navicelle spaziali e alle astronavi che roteano su una Bologna futuribile dal cielo terso. Il 1929 non è stato per voi l’anno della grande crisi, ma quello dell’incominciamento…
Prima del 1929, mio padre, Enrico Brunetti, aveva lavorato per alcuni anni in un’utensileria di Milano. Era nato in una casa sperduta fra i boschi a Castel di Casio, vicino a Porretta Terme, e aveva compiuto grandi sacrifici: qualche volta – mi ha raccontato – aveva anche dormito in stazione.
Per la sua tenacia aveva conquistato la stima del suo titolare meneghino al punto che, quando gli comunicò la decisione di aprire l’Utensileria Brunetti a Bologna, questi, invece di andare in collera perché il collaboratore annunciava di aprire una propria azienda per la vendita di prodotti analoghi, non solo gli diede il suo assenso, ma lo presentò ai maggiori fornitori di utensileria dell’epoca, in modo che potesse guadagnare subito. Poi arrivò la guerra e mio padre cercò di salvare gli utensili, che i tedeschi requisivano per il funzionamento dei camion e di altri mezzi meccanici, nascondendoli nella porcilaia della casa diroccata in cui era nato.
Alla fine della guerra sono stati istituiti i campi A.R.A.R. (Azienda Rilievo e Alienazione Residuati), dove gli americani mettevano in vendita mezzi militari e altro materiale, utilizzato nella manutenzione durante gli anni della guerra. Acquistando questi materiali a prezzo di rottame, mio padre ha ricostituito l’azienda, che intanto si era trasferita dalla zona del ponte di via Matteotti a Bologna al civico 20 di via Goito, dove siamo rimasti fino al 1971. Poi, nel 1983, anno dell’inaugurazione delle torri del Fiera District, ci siamo trasferiti dalla sede di via Stalingrado, in angolo con via del Lavoro, alla sede attuale nel cuore del Centergross.
Lei è entrato in azienda nel 1967 e ha avuto l’opportunità di lavorare fianco a f ianco prima con suo padre e poi con suo f iglio. Qual è stata la sua esperienza in questi cinquant’anni?
A quell’epoca non c’era la specializzazione esasperata della conoscenza di oggi, per cui non sapevo nulla della meccanica e mi avvalevo dell’esperienza pratica. Peraltro, ero bravo a scuola e avrei continuato gli studi, se mio padre non mi avesse richiamato alle esigenze dell’azienda. Era un uomo severo e parlava poco, ma era dotato di uno spirito di equità e di un senso di giustizia unici, non solo nei confronti di noi f igli, ma anche verso i dipendenti, verso i rappresentanti che venivano in azienda e verso tutti coloro che incontrava. Bastava un’occhiata per mettere sull’attenti il suo interlocutore. Eppure, io non ho mai amato nessuno come mio padre. Forse i miei figli. Non ho più incontrato un uomo con queste capacità e con la sua rettitudine, cogliendone il valore con l’età della maturità.
Mio figlio Enrico veniva in azienda ogni tanto, durante il periodo estivo. Ero contento che respirasse l’odoraccio della bottega, e non so fino a che punto lui ne fosse felice, perché i suoi amici andavano a giocare a pallone. Mio padre aveva fatto così con me e io ripetevo tutte le angherie paterne che erano state la mia scuola quotidiana quando ho incominciato. Tutto quello che mi ha insegnato l’ho trasferito a mio figlio, come il rispetto degli orari, delle norme e delle regole, convinto che poi il resto sarebbe stato la conseguenza di una tale educazione.
Questo lavoro mi ha regalato grandi soddisfazioni, soprattutto per le opportunità che offre sotto il profilo commerciale. L’attività del mercante è per me un lavoro magnif ico, perché consente d’incontrare e di parlare di ciascun aspetto con tante persone. Non riuscirei a svolgere un lavoro impiegatizio, fra le pareti di un ufficio, e non ho intenzione di andare in pensione perché il dinamismo di questo lavoro è quasi appagante, anche se la sera la stanchezza non manca.
In questi ultimi cinquant’anni sono intervenute molte trasformazioni, ma la parola resta imprescindibile, soprattutto se integrata dalla conoscenza dettagliata dei prodotti della meccanica più complessa. La cura del cliente parte dal dispositivo di parola avviato con ciascuno. Fino a qualche decennio fa ci recavamo dai clienti soltanto con il nostro venditore. Oggi, invece, i nostri venditori vanno a trovare i clienti accompagnati dai tecnici delle multinazionali che producono gli utensili in modo da offrire un servizio migliore. Sarebbe stato impensabile fino a qualche anno fa, ma oggi le innovazioni nella meccanica sono quotidiane, per cui è necessario essere aggiornati sulle ultime novità.
L’epoca attuale propaganda la standardizzazione dei processi, anche nella formazione, come un valore in alternativa a tutto ciò che standard non è, apostrofandolo come anomalia. Oggi che cosa costituisce l’anomalia nelle imprese?
Al tempo in cui ho incominciato a lavorare, erano basilari la ricerca e l’esperienza pratica. Qualche settimana fa ci è stato recapitato un questionario da parte di Confindustria in cui ci veniva chiesto quali sono le cose che frenano di più l’azienda. Fra le risposte erano menzionate le tasse e la burocrazia, ma la questione nodale è invece costituita dalla cosiddetta formazione dei giovani in azienda. Spesso, gli investimenti di ciascuna impresa nella formazione dei propri collaboratori risultano sprecati, perché noi imprenditori ci scontriamo con l’assenza di educazione alla disciplina delle nuove generazioni. Dopo qualche mese dall’investimento, l’imprenditore spesso si sente rispondere dal nuovo assunto che l’attività intrapresa non fa per lui perché se la immaginava diversa. Trovare collaboratori a cui insegnare il mestiere è oggi la cosa più difficile per un imprenditore. Mio padre aveva assunto il suo collaboratore più valido quando questi, Luciano Monti, aveva 14 anni: Luciano è rimasto a lavorare con noi per quasi sessant’anni. Oggi, quel garzone ha 93 anni e gli porto ancora il panettone a Natale. Lui mi ha visto nascere e poi andare all’asilo. Sono queste le storie dei giovani che diventano uomini lavorando insieme nelle aziende.
È il dispositivo della bottega…
Ma nel sessantotto questo spirito di collaborazione è stato sradicato dalla nostra cultura. Durante gli anni del cosiddetto boom economico c’era da lavorare tanto e per tutti. Si lavorava 44 ore alla settimana e anche al sabato mattina. Era consentito non recarsi in azienda il mercoledì o il giovedì pomeriggio, ma non il sabato, perché in quel giorno dovevamo organizzare le cose che erano maturate durante la settimana e discutere dei problemi emersi: questa era la realtà della bottega.
Anche la solidarietà fra le imprese fa parte di questo patrimonio…
Nel 2012, il terremoto aveva raso al suolo i capannoni di alcune aziende nostre clienti. Noi ci siamo chiesti come dare una mano e abbiamo considerato l’ipotesi di mettere a disposizione un capannone di nostra proprietà, rimasto vuoto a causa della crisi. Qualche giorno dopo, sul quotidiano “Il Resto del Carlino” compariva la scritta “La Ditta Brunetti Utensileria mette a disposizione degli imprenditori delle zone colpite dal recente terremoto, a titolo gratuito, un capannone di seicento metri quadri, presso il Centergross di Bologna”. È stato così che l’azienda tessile Caleffi di Mirandola si è trasferita nel nostro capannone per continuare a svolgere l’attività. Custodiamo ancora la lettera di ringraziamento per quella solidarietà inattesa.
Qual è stata la vostra carta vincente negli anni della crisi?
Noi lavoriamo con nostre risorse finanziarie. Certamente, quando mio padre ha aperto l’attività non disponeva di liquidità e ha avuto la fortuna di avere un datore di lavoro che gli ha dato tanti consigli e lo ha presentato ad altre aziende in modo che traesse profitto subito. Però, mio padre ha avuto anche l’intelligenza di capire che, man mano che guadagnava un soldino, occorreva mantenere sobrietà e discrezione, invece di atteggiarsi con spavalderia. Del resto, quando venne rapito a scopo di estorsione il noto industriale Angelo Fava, fu prelevato dall’abitacolo di un’utilitaria, una Fiat Cinquecento.
L’anomalia poggia su solide basi, senza bisogno di spettacolarizzazioni.